domenica 13 marzo 2011

Un mare di proteste

Nessuno avrebbe potuto prevederlo. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Le proteste e le manifestazioni nel Mediterraneo hanno investito le coste Nordafricane come uno Tsunami. In tutti quei Paesi si sono verificate delle rivolte. Certo, in alcuni posti con maggiore virulenza che in altri, ma non c'è Paese del sud del bacino del Mediterraneo che non ne sia stato toccato.

Tutto è cominciato nel dicembre scorso a Sidi, in Tunisia, quando un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, si è dato fuoco davanti al governatorato della sua città per protestare contro la situazione di povertà in cui versano migliaia di cittadini tunisini, contro l'aumento dei prezzi dei generi alimentari, e più generalmente contro la carenza di democrazia del Paese. Le proteste da lì si son poi diffuse subito in Algeria già verso l'inizio di gennaio, dove anche qui si sono registrate forti impennate nei prezzi dei beni di prima necessità: la "guerra del pane" ha inizio.

L'Algeria sembrava inizialmente molto avanti nell'organizzazione delle proteste, manifestanti subito ben organizzati in numerosi collettivi e molto determinati e decisi nelle loro rivendicazioni, ma l'apparente accondiscendenza delle forze governative e i fantasmi della guerra civile degli anni 90 che fu devastante per il Paese hanno contribuito a frenare il movimento di protesta.
Intanto in Tunisia le rivolte procedono e pure ad un passo spedito: il 13 gennaio il presidente Ben Ali dopo un discorso alla nazione dove promette maggiore libertà, lascia il Paese che ora si trova in mano ad un governo provvisorio in attesa di nuove elezioni. La Tunisia è il primo Paese dove si giunge ad una soluzione concreta anche se non si può certo dire che la situazione sia stabile.

Dopo la Tunisia tocca all'Egitto investito anch'esso da travolgenti proteste contro il governo in carica di Mubarak e qui infatti la protesta segna una sostanziale trasformazione: da una rovolta per il pane e contro la povertà quale era scaturita in Tunisia ed Algeria, la protesta è divenuta una assordante richiesta di democrazia prima di ogni altra cosa. Già la piega che avevano preso le proteste tunisine era visibilmente di tipo politico. Ad inizio febbraio, dunque, il presidente Mubarak annuncia le sue dimissioni e attualmente il Paese è in mano ad una giunta militare, sempre in attesa di nuove elezioni. Anche qui la situazione non è ancora definita ed è in continua evoluzione. Però, come in Tunisia, si è giunti all'allontanamento del capo di Stato.

A questo punto, mentre timide proteste cominciavano ad affiorare anche in Marocco, in Yemen, in Bahrein, in Giordania, nemmeno i più ottimisti si sarebbero immaginati che in Libia, formalmente una repubblica popolare, ma effetivamente un regime militare in carica da più di 30 anni, si sarebbero potute verificare proteste così accese ed infuocate, in un Paese dove le condizioni economiche non sono ai limiti della povertà, ma anzi, la Libia si può considerare il Paese più avanzato tra quelli in agitazione. La matrice della protesta è definitivamente quella politica, la rivendicazione è la democrazia.

Ci troviamo dunque di fronte ad una pagina importante della Storia: tanti sono i Paesi in cui la democrazia si è da tempo affermata, essenzialmente in quelli dell'Occidente, ma ancora tanti sono i Paesi che non hanno conosciuto finora la svolta democratica. Ora tocca ai Paesi del Maghreb, sperando che questo momento possa realmente condurre verso il traguardo auspicato, e non trasformarsi in qualcosa di pù terribile, e cioè in nuove e sanguinose dittature.

domenica 6 febbraio 2011

Il nemico magistrato

In Italia abbiamo molto spesso la simpatica caratteristica di prendercela con qualcun'altro quando non ci vanno bene le cose, di scaricare tutte le colpe a condizioni esterne che non abbiamo avuto il potere di fermare, di prendercela con la sorte avversa, con persone e situazioni che maledettamente si oppongono a noi.
Un popolo di perseguitati: perseguitati dai vigili che hanno fatto la multa proprio a noi, perseguitati dal traffico che troviamo sempre quando siamo di fretta, perseguitati dal cattivo tempo proprio quando non abbiamo preso l'ombrello, perseguitati dalle bollette da pagare e dalle tesse che sono sempre troppe.

A questa lista di 'sventure' negli ultimi anni si è aggiunta una ulteriore forza ancestrale che impedisce la piena soddisfazione dell'essere umano e della felicità terrena. E questa è rappresentata nella figura del magistrato. Il magistrato che ormai non agisce più in nome e per conto della legge, in attuazione del principio di giustizia, ma ormai opera secondo moventi politici, o più che altro secondo logiche di casta che portano ad un abuso della sua carica e del suo potere.
Seguendo quest'ottica, la magistratura è uscita fuori dai ranghi, è incontenibile, e detiene un potere troppo ampio, troppo forte, troppo pericoloso.

Che la magistratura agisca politicamente può in un certo senso essere una definizione ammissibile se non esatta. E questo perchè se consideriamo la politica come l'arte di governare la società, l'amministrare per il bene di tutti, il mantenimento dell'ordine e dell'equità, ecco che la magistratura svolge un ruolo più che politico. Svolge a pieno quel ruolo di potere dello Stato di derivazione montesquieuiana essenziale per garantire l'equilibrio in una democrazia. Ma si badi bene: il potere giudiziario è politico, ma non utilizza i 'mezzi politici' tipici soprattutto degli altri due poteri. E cioè non basa la sua legittimazione sul consenso, e non fa propaganda sulle sue azioni. Sotto questo aspetto la magistratura non è affatto un organo di carattere politico. Ciò le permette di mantenersi indipendente, di agire veramente in nome della legge, di non dover dare conto, ad esempio, a reazioni elettorali successive all'esecuzione del proprio operato. E' senz'altro un grande traguardo quello di non avere un potere giudiziario sottomesso agli umori altalenantanti del popolo, soggetto alle emozioni delle folle, ma sottoposto solo alla legge che risponde a sua volta alla volontà di giustizia.

La 'politicizzazione' della magistratura è invece un progetto che intende attuare questo governo, sottoponendo cioè il potere giudiziario al potere esecutivo e sbilanciando di conseguenza l'equilibrio tra i poteri. Questo disegno è infatti contenuto nella riforma della giustizia come l'ha pensata Alfano, e come la vuole tutto il governo, e che prevede, tra le altre cose, un CSM (organo di autogoverno della magistratura) a guida politica, la polizia non più nelle disposizioni dei magistrati, e una separazione delle carriere che rende potere dello stato solo il giudice, mentre il magistrato diviene solo un semplice ufficio. Questo decreta in poche parole la fine dell'indipendenza della magistratura. Di questo progetto di riforma non se ne è parlato in televisione, o perlomeno non se ne è parlato a dovere, ma anzi, ci si è preoccupati di dare ampio risalto ai proclami di una magistratura 'sovversiva'.

venerdì 14 gennaio 2011

La trappola del referendum

La strana democrazia italiana ci propone questa volta una ricetta inconsueta, con ingredienti che le conferiscono un forte sapore di ricatto. Si tratta di una votazione, di una consulatazione democratica, ma in questo caso il vincitore si sa già. E i perdenti pure. E' uno strano referendum, infatti.
Come sapete, gli operai della FIAT di Mirafiori sono chiamati a decidere se approvare o meno le condizioni dell'accordo tra l'azienda stessa e la maggior parte dei sindacati. Tralasciando il fatto che si tratti di condizioni secondo alcuni ritenute incostituzionali (come quelle riguardanti il diritto di sciopero), si presuppone almeno che alla fine dei giochi l'esito venga rispettato da ambedue le parti, anche se non è quello sperato. Ma in questo caso così non avviene: Marchionne infatti ha già fatto sapere che se il risultato del referendum non è quello da lui aspettato, chiuderà baracca e burattini e si trasferirà all'estero. Lui non può perdere.

Questo atteggiamento, irrispettoso e autoritario, offusca e invalida persino, le ragioni di cui poteva contare Marchionne per il suo SI all'accordo. Infatti, comunque sia, l'industria italiana soffre di un grave problema, che è quello della bassa produttività, la quale è anche naturale conseguenza di quel male italiano che è l'assenteismo diffuso sul posto di lavoro, soprattutto nei giorni che precedono o seguono le festività. Questo punto, trattato anche nell'accordo, è un preoblema reale, che sia la politica, sia i sindacati, sia gli stessi lavoratori sicuramente sarebbero disposti a risolvere. Ma sia l'atteggiamento di Marchionne, sia alcuni altri punti più criticabili dell'accordo, sono cause di tensioni che certo non giovano ad un miglioramento delle relazioni industriali e nell'insieme di tutta l'economia italiana.

In sostanza si tratta di un referendum farsa, di una trappola, che qualunque esito proporrà, giustificherà Marchionne nel compimento delle sue azioni. Se vincesse il Si, l'ad Fiat avrebbe battuto le resistenze dei sindacati, o almeno le resistenze della Fiom, e quindi compirebbe un importante passo in avanti verso ciò che lui intende realizzare: un sistema di relazioni tra sindacati e datori di lavoro non molto dissimile da quello americano, dove il potere delle organizzazioni dei lavoratori è molto tenue. D'altro canto se prevalesse il No, porterebbe la produzione fuori dall'Italia realizzando così più facilmente i suoi obiettivi di produzione ma non solo: assesterebbe comunque una botta tale ai sindacati italiani che, resisi responsabili di questa fuga, perderebbero la loro considerazione.
In ultimo luogo Marchionne ha promesso, in caso di vittoria del Si, importanti investimenti nel polo torinese e in tutti gli altri stabilimenti, ma di questi investimenti Marchionne ne parla da tempo, intanto la Fiat negli ultimi anni non sforna nuovi modelli ma beneficia di importanti incentivi statali. Lo Stato ha sempre fatto la sua parte per sostenere la Fiat, forse anche troppo, ma sembra che la Fiat non stia facendo abbastanza per sostenere il Paese, anzi vuole tagliare la corda.